venerdì 31 dicembre 2010

Dio esiste? (18)


M: Da quel che dici sembra che tu abbia di Dio solo un'esperienza indiretta, compiuta per interposta persona, attraverso la visione, l'ascolto o la lettura dell'esperienza di Dio di altri. Vorrei invece sapere se hai di Dio un'esperienza diretta, basata su una tua visione, ascolto o pratica di Dio, perché questo è l'argomento del nostro capitolo. Un Dio che esiste per sentito dire non mi interessa. Quanto al racconto degli "eventi originari" e a tutto il resto, verrà il momento opportuno.

P.S.: Come amministratore del blog al pari tuo, d'ora in poi ti casserò tutti i post più lunghi delle dieci righe concordate assieme. Oppure, chiedi apertamente più spazio. Ciao e buon anno nuovo.

Dio esiste? (17)

L.: Si, credo di averne una personale. Riguarda proprio l'esperienza degli altri: è l'emozione che mi prende quando vedo, ascolto o leggo dell'esperienza di Dio di persone che stimo. Dietro di loro ci sono altre persone: è una catena umana che risale nei secoli e di cui sento di far parte.
All'origine di questa catena, così forte, sospetto che ci siano "eventi originari". Ma non ho prove certe, di questo: se no figurati dove sarei in questo momento!

Quelle persone e quegli eventi originari mi interessano più di ogni altra cosa al mondo e li studio con impegno. Così ci sono molte persone che provano qualcosa di importante sentendomi (spesso) parlare di queste cose e perciò mi ringraziano, e credo sia perché anche loro desiderano far parte di quella catena.

Ma per parlarne dovrei provare a raccontare un esempio assolutamente inventato di ciò che intendo per "evento originario". Così si potrebbe capire bene a cosa mi riferisco (giuro: in 10 righe!).

Dio esiste? (16)

M: Finalmente una risposta diretta. Prima di definire le caratteristiche del Dio di cui parli, vorrei sapere perché ancora una volta, circa il credere in questo Dio, ti rifai alla testimonianza di terzi. Neanche di questo Dio - proprio come affermavi per il Dio dei filosofi - hai una tua esperienza personale?

Dio esiste? (15)


L: Sospetto d sì.
E se è il Dio in cui credono molte persone che stimo, spero di sì.

Dio esiste? (14)


M: Dio esiste?

giovedì 30 dicembre 2010

Dio esiste? (13)

Non ho capito bene perché sono stato frainteso. Mi ripeto, sperando di fare chiarezza nella mia posizione:
1. Il Dio superiore, onnipotente, onnisciente... che è passato a far parte del senso comune è il Dio dei filosofi. Nessuno di loro, secondo me, riesce a fare altro che a parlarne, nei libri, come di un'utile astrazione. Utile ai loro sistemi. Nessuno di loro è un testimone.
2. I testimoni che mi interessano parlano invece prima di tutto di un Dio di cui hanno esperienza, cioè di un Dio che, affermano, è entrato e sta in contatto con loro nonostante essi siano esseri finiti, non onnipotenti e non onniscienti.
E' con questi testimoni, con queste persone, che io confronto la mia esperienza di Dio e cerco, da quando sono nato, di scoprire chi è. In questa ricerca i filosofi servono, sì, ma solo in un secondo momento: le persone sono più importanti dei libri! (pensavo di averlo detto chiaramente, se no mi scuso).
3. Esempi di testimoni: Martin Luther King, Madre Teresa di Calcutta, Ghandi. E cito per forza personaggi noti, ma sono ancora più toccanti le persone che hai vicine nella vita, spesso ovviamente ignote ai più.

Dio esiste? (13)


M: Ti prego di procedere secondo logica. La tua risposta del post 8 è già risolutiva. Idem per la spiegazione che ne hai fornito nel post 10. Dato tutto ciò, che importanza attribuisci ai "testimoni" chiamati in causa nel post 12? Visto l'ordine con cui hai esposto gli argomenti, devo dedurre che i libri contano per te più delle persone in carne e ossa e che ai "testimoni" concedi scarsissimo credito. Tanto che, nonostante la loro asserita esperienza di Dio, non ti sono sufficienti per affermarne l'esistenza. Spiegati.

mercoledì 29 dicembre 2010

Dio esiste? (12)


L: Il problema è proprio il fatto che del Dio di cui parlano Aristotele, Platone, Plotino, Cartesio, Spinoza, Hegel... essi non sono e non vogliono essere "testimoni", ma teorici. Loro stessi ci tengono molto, a questa differenza: il Dio di cui si può essere (o pretendere di essere) solo testimoni a loro, almeno nelle loro opere, non interessa. E questo perché ritengono la testimonianza un appiglio fragilissimo per sostenere la necessità di un'idea, quale è, per loro, Dio.

A me, invece, sì: mi interessa il Dio di cui molti uomini e donne si presentano come testimoni, cioè affermano di averne fatto esperienza, e non quello di coloro che mettono "Dio" come ingranaggio in un sistema filosofico (o anche pseudo-scientifico, se è per questo).

Dio esiste? (11)


M: Di molte cose non abbiamo esperienza diretta, senza per questo dubitare della loro esistenza. Io non ho mai visto l'atomo, il Lago di Merate, l'animo della donna con cui vivo, ma sono sicuro che esistono. E dunque: perché, pur avendo la testimonianza di molti illustri personaggi che credono fermamente nell'esistenza di Dio, non sei disposto ad ammettere con certezza che Dio c'è?



lunedì 27 dicembre 2010

Dio esiste? (10)

L: Qui c'è un paradosso che mi ha sempre affascinato.
Al Dio superiore, intangibile, onnisciente e onnipotente sono dedicati, nella cultura occidentale, centinaia di volumi di grandi pensatori. Dio, per questi pensatori, è assolutamente necessario per giustificare l'esistenza e l'ordine del mondo.

Io di quei libri ne ho letti molti. Faccio un esempio: la Metafisica di Aristotele (3 volte) o la Repubblica di Platone (2 volte) o le Enneadi di Plotino... e alla fine so, di Dio, che questi grandi pensatori lo ritengono indispensabile.
Ma non avendone, come ho detto, nessuna esperienza, resta che di "Dio" non so quasi nulla. Cioè so solo che per parte della filosofia Dio è necessario, ma che quella stessa filosofia non sa darmi l'esperienza (cioè la conoscenza) di quello stesso Dio che presenta come indispensabile.

Perdona la lunghezza!

Dio esiste? (9)


M: Sì, mi interessa la spiegazione di quel "quasi".

Naturalmente, trattandosi di un oggetto del quale non sai "quasi nulla" perché non "ha mai fatto parte" della tua esperienza, tanto che ti è "praticamente impossibile dire se esiste o no", mi aspetto che la spiegazione sia stringata. Altrimenti, dovrò pensare che quel "quasi" è solo un artificio retorico.

Dio esiste? (8)

L: Si dialoga proprio perché non si è d'accordo, se no a che serve?

Ma veniamo al punto: ora che abbiamo in qualche modo fissato l'idea di partenza sulla quale ci stiamo interrogando, posso rispondere.
E la mia risposta è che "Dio", cioè un essere superiore all'uomo, non fisicamente individuabile, onnipotente e onnisciente è un essere di cui non so praticamente quasi nulla. E non ne so quasi nulla perché non ha mai fatto parte della mia esperienza. Mi è quindi praticamente impossibile dire se esiste o no.

Se ti interessa, potrei provare a spiegare quel "quasi", ma solo se ti interessa.

Dio esiste? (7)

M: Bene. Noto con soddisfazione che già ora, al principio del nostro dialogo, non ci troviamo d'accordo, e su un tema semplice: la definizione di Dio secondo il sentire comune. Sul come e perché non siamo d'accordo torneremo più avanti.

Accetto comunque la tua declinazione di Dio: un essere superiore all'uomo, non fisicamente individuabile, creatore dell'uomo stesso e dell'universo, onnipotente e onnisciente. Questo Dio secondo te esiste?

P.S.: come vedi, è possibile stare nelle dieci righe.

domenica 26 dicembre 2010

Dio esiste? (6)


L: Mi sembra che proprio secondo l'intendere comune Dio esiste, se esiste, come essere spirituale, cioè appartenente a una dimensione che sta oltre la realtà fisica. Questa caratteristica mi sembra anzi decisiva: è parte integrante di quella "superiorità" cui accennavi giustamente nel post numero 3.
Insomma: Dio, come essere spirituale, è considerato dal senso comune senza i limiti di ogni altro essere fisico (uomo, animale, albero, pietra...) e questa caratteristica, si pensa, è coerente con l'idea di un essere superiore all'uomo e a ogni altra cosa.

Quando chiedi "Dio esiste?", intendi un essere spirituale come intende, a mio parere, il senso comune?

Dio esiste? (5)

M: 1) "Fisicamente individuabile" significa che, secondo l'intendere comune, Dio esiste in corpore vivo.

2) L'uomo ha creato Dio a sua immagine e somiglianza.

3) Vedi risposta 2.

Metodo: si risponde alle domande, si argomenta ed eventualmente si pongono poi nuove domande. Rispondere a domanda con domanda significa sviare la discussione. Egualmente: non andiamo oltre le dieci righe per post. Eccedendo si smarriscono sintesi e filo del discorso.

sabato 25 dicembre 2010

Dio esiste? (4)


L: Tre domande ancora.

La prima è per capire: cosa significa "fisicamente individuabile" riferito a Dio?

La seconda credo sia più importante: secondo te, da dove prende il senso comune questa idea di Dio?

La terza è legata alla prima: perché questa idea di Dio è a tuo parere convincente per i più, tanto da essere diventata parte del senso comune?

Attenzione, prima di rispondere: per "convincente per i più" non intendo dire che i più sono convinti o sicuri dell'esistenza di un essere così descritto, ma che i più pensino che quando si parla di Dio (per affermarlo o per negarlo qui non interessa) sia quasi ovvio intendere "Dio" nel modo che hai descritto...

venerdì 24 dicembre 2010

Dio esiste? (3)


M: Per "Dio" intendo ciò che intende il senso comune: un essere superiore all'uomo, fisicamente individuabile, creatore dell'uomo stesso e dell'universo, onnipotente e onnisciente. Questo Dio secondo te esiste?

Dio esiste? (2)


L: Cosa intendi per "Dio"?

Dio esiste? (1)

Smentisco me stesso: niente pausa. Io e Luca abbiamo pensato che in realtà niente è meglio del tempo natalizio per inaugurare un gioco intellettuale (serio) su uno degli argomenti che ci interessa di più: la spiritualità umana.

Il gioco è fatto così. Dialogheremo sull'argomento attraverso i nostri post, che verranno numerati progressivamente. Il dialogo sarà articolato in capitoli, il primo dei quali è appunto: "Dio esiste?". Ciascuno di noi può prendersi tutto il tempo che vuole per postare. Il post non può essere più lungo di dieci righe. Il capitolo verrà chiuso quando lo riterremo esaurito. Chiunque legga può partecipare al gioco postando i suoi commenti, che verranno da noi ripresi e discussi. Vedremo cosa maturerà nel corso del dialogo.


M: Dio esiste?

domenica 19 dicembre 2010

BUON NATALE
A TUTTI!
Come tutti i bravi bambini,
anche noi facciamo le vacanze di Natale.
Potremo così dedicarci
allo spirito (Luca) e alla crapula (Maurizio),
cercando nel frattempo di maturare
qualche buona idea per i nostri libri.
Ci si sente e ci si legge dopo l'Epifania. A presto!
Maurizio e Luca

domenica 5 dicembre 2010

Bambini scrittori 2

Proseguo la descrizione del laboratorio di scrittura creativa nelle scuole che ho cominciato due settimane fa ("Bambini scrittori 1").

Mostrando ai bambini di quinta elementare le copertine di diversi libri e chiedendo loro di che genere di libro si tratta, si fanno scoperte interessanti. Si vede, per esempio, che riconoscono subito il genere fantasy, l'horror, l'avventura e le storie "da ridere". Ma se mostriamo loro libri per ragazzi che trattano storie reali, con ragazzi come loro alle prese con la scuola, i genitori, i nonni, gli amici, il gioco, lo studio... non si trovano altrettanto a loro agio. Insomma: di solito non li leggono.
Siamo alle prese con una generazione che ha a che fare con il mondo della creatività e della comunicazione (televisione, cinema, internet e infine, anche se poco, libri) solo per evadere dalla realtà? Il sospetto è molto forte. Genitori e anche qualche insegnante favoriscono questa tendenza: basti pensare al successo straordinario del poverissimo (a mio parere) Geronimo Stilton.

Comunque sia, il mio laboratorio in quinta prosegue appunto mostrando molti libri ai ragazzi (ne ho una valigia piena, ricordate?) e dividendoli con il loro aiuto in colonne divise per genere di storia.
Dicevamo che una volta che io ho una penna, un foglio bianco e una lingua in testa posso tecnicamente scrivere una storia. A questo punto manca la storia. Per cominciare davvero, posso quindi decidere che tipo di storia scrivere: se un genere mi piace e lo conosco meglio sarò più stimolato a inventare storie di quel tipo.

Bene, ora ho bisogno almeno di un protagonista e di un soggetto. Il concetto di protagonista lo conoscono. Allora io estraggo dall'altra valigia, uno dopo l'altro, una serie di cappelli e copricapi molto diversi: un cappello da ferroviere, uno da cuoco, uno da mago, un casco da motociclista, un elmetto militare, un sombrero, un cappello da montanaro, il casco nero del cattivo di Guerre Stellari ed altri ancora. Poi, sempre scovando le cose nella valigia, associo a ciascun cappello un oggetto: bacchetta magica, mestolo di legno, pistola, cannocchiale, poncho, fischietto, spada laser...
E' evidente che se io faccio indossare a diversi bambini e bambine un copricapo e l'oggetto che gli si associa ho davanti agli occhi il mio protagonista di un'avventura, di un viaggio esotico, di un'esplorazione spaziale, di un'indagine, di un dramma culinario, di un fantasy e così via.

A questo punto, discutendone insieme, a ciascun bambino ben caratterizzato associamo un soggetto, cioè la descrizione essenziale della storia di cui il personaggio sarà protagonista (tre righe, non di più). Per far capire cos'è un soggetto, ricordo ai ragazzi i dubbi che possono essere venuti a tanta gente per le strade di Saronno meno di un'ora prima, vedendomi camminare con passo deciso verso la scuola trascinandomi dietro le due grosse valigie e tenendo in testa un cappello con una piuma sopra.
Cosa c'è nelle valigie? E perché il signore che le porta non va verso la stazione? Perché entra nella scuola? Chi è? Cosa vuol fare?
I ragazzi propongono: è un supplente che viene a fare una lezione straordinaria. Ma qualcuno tra loro ha già messo in moto la fantasia: nella valigia c'è un cadavere! Oppure: le valigie sono piene di soldi rubati!
E perché, allora, entrare nella scuola? Perché è il luogo dove l'assassino o il ladro non verrebbe mai cercato dalla polizia.

Ed ecco il soggetto: Un mattino, a Saronno, un buffo signore attraversa la piazza e va verso la scuola portando due grosse valigie. La gente pensa che sia un maestro chiamato per fare un laboratorio. Ma quel mattino, nella banca, è avvenuta una rapina. La polizia cerca altrove, mentre i ragazzi hanno a che fare con un ladro pronto a tutto!

A questo punto inventiamo soggetti a ruota libera, associandoli o a personaggi "regolari" (tipo il cuoco con il cucchiaio di legno) o a personaggi bizzarri (un cuoco con una bacchetta magica, un soldato con una stella alpina...).
Una volta messa in moto la creatività, tutti i ragazzi sono invitati a scrivere un soggetto da soli e poi a leggerlo ai compagni.
Infine ne scegliamo subito quattro o cinque e facciamo proposte per titolo e copertina.

Uno degli obiettivi del laboratorio è anche quello di ricordare ai ragazzi che la fantasia ha grande potere e molto spazio per esercitarsi anche nella realtà di tutti i giorni.
Non ne abbiamo forse un gran bisogno?

domenica 28 novembre 2010

Il druidismo ottiene nel Regno Unito il riconoscimento dello Stato

La Charity Commission è l'organo governativo britannico che si occupa dei rapporti con le religioni. Recentemente ha adottato una decisione che ha suscitato parecchio clamore nel Regno Unito e alla quale hanno dato risalto i media di tutto il mondo. Dopo un'indagine durata quattro anni, l'ente londinese ha offerto al druidismo la dignità di religione ufficialmente riconosciuta dallo Stato.

Il provvedimento avrà immediati riflessi economici. La decisione consentirà infatti ai seguaci delle antiche pratiche celtiche, tuttora molto seguite nelle isole britanniche, di ottenere consistenti sgravi fiscali, dato che il lavoro di promozione del druidismo è stato riconosciuto come attività di pubblico interesse nazionale.

Ma è ovvio che le maggiori ripercussioni di questo evento si avranno sul piano culturale. La Charity Commission ha ammesso che il druidismo è la più antica forma di religione di cui si abbia memoria Oltremanica e lo ha definitto "un insieme di pratiche coerenti e strutturate per l'adorazione di un essere supremo", aggiungendo che queste pratiche "sortiscono un impatto morale benefico sulla comunità dei fedeli". Ha sdoganato quindi, a livello ufficiale, l'adorazione degli spiriti di fiumi e montagne, la celebrazione di rituali legati all'alternarsi delle stagioni, e quel rapporto strettissimo tra uomo e natura che caratterizzava molte pratiche religiose precristiane.

Dunque l'Europa riscopre, dopo duemila anni, di essere stata un tempo pagana.
Ammette di non avere mai smesso di esserlo.
Reintroduce, attraverso il circuito alto delle decisioni governative, i riconoscimenti ufficiali e gli incentivi economici che tanto bene fanno alla libertà di scelta religiosa.

In definitiva, una buona notizia per tutti.

domenica 21 novembre 2010

Bambini scrittori 1

Sono tornato alla scuola elementare, ma i bambini stessi ora la chiamano "primaria" e a me sembra che il linguaggio della burocrazia sia penetrato nelle loro fragili menti. "Elementari" suggeriva l'idea di una scuola giustamente più facile, per i piccoli, e volendo diceva anche che proprio lì si imparavano gli "elementi fondamentali" del sapere e del saper imparare (il famoso leggere, scrivere e far di conto).
Comunque. Invitato da una brava insegnante, ho preparato e sto volentieri proponendo un nuovo laboratorio di scrittura per i bambini. Lo descriverò in due o tre puntate.

Questa volta siamo in quinta. Con il gioco del "quezùl" - ricordate? No? Allora andate a rileggere due miei post di qualche mese fa... - eravamo in seconda.

Entro in classe appena suona la campana di inizio lezioni, trascinandomi dietro due grosse valigie. In testa ho un elegante cappello con una penna infilata sopra.
Comincio a parlare ai bambini in inglese e parlo in fretta. Il mio inglese non è fluente, ma ho preparato bene un discorsetto che dice: "Buongiorno, ragazzi! Sono Luke Cripe, scrittore inglese. Sono appena arrivato dall'aeroporto di Malpensa. Mi ha chiamato la vostra maestra, al telefono, perché vuole che vi insegni come si fa a fare gli scrittori...". Entra un ragazzino in ritardo, gli dico che è tardi, sempre in inglese, mi presento stringendogli la mano, chiedo come si chiama. I compagni ridono, anche perché capiscono abbastanza inglese da sapere che sto davvero parlando in questa lingua ("wath's your name?), ma non abbastanza da capire tutto quello che dico ("It's too late..."!).

Dopo un po', quando il mio discorso si fa sempre più complicato, faccio finta di accorgermi che non capiscono. Non parlano inglese? Allora ho la soluzione. Apro una delle valigie e tiro fuori un foglio con disegnato al centro un piccolo cerchio rosso. Sopra c'è una scritta in inglese: "Push the botton and choose the language". E sotto c'è una scritta in italiano: "premi il pulsante e scegli la lingua".
Mi avvicino a un ragazzino della prima fila, gli infilo la penna sopra l'orecchio (ora è lui, lo scrittore) e lo invito ad eseguire l'ordine. Quello preme il pulsante, appoggiato alla mia pancia... e io improvvisamente comincio a parlare in italiano.
Se si fa bene, l'effetto è comico e i ragazzini sono ben disposti a darti retta per i primi minuti successivi.

Bene, a questo punto parliamo in italiano e ci capiamo!
Il primo strumento di uno scrittore è la lingua, e noi, per fortuna, ne abbiamo una. E anche molto bella.
Conoscete l'italiano? Si? Siete sicuri?
Dalla valigia estraggo un grosso vocabolario. Lì, spiego, ci sono migliaia di parole. Le sappiamo tutte? I ragazzi non sono sicuri. Allora li provoco: "cosa vuol dire 'pusillanime'? E 'inane'? cosa vuol dire 'truculento'? e 'sperequazione"?
Non conoscono il significato di nessuna di queste parole.

A questo punto faccio capire, con gli esempi giusti, che se voglio spiegare il significato di "truculento" e "sperequazione" devo raccontare, di fatto, una storia. Magari breve, ma deve essere una storia, un fatterello il cui protagonista è un tipo truculento o nella quale avviene una ingiusta distribuzione di caramelle tra bambini con gli stessi diritti di riceverne in parti uguali.
Dunque le storie sono fatte con le parole, ma le parole acquistano significato nelle storie.
E c'è di più: le parole hanno una storia. Il dizionario ne contiene migliaia che noi non usiamo più (tipo "codesto") e si arricchisce ogni anno di parole nuove, che i nostri nonni non usavano (tipo "chattare"). Ecco perché é così voluminoso (a proposito: cosa vuol dire "voluminoso"?).

Bene. Ora abbiamo capito di avere una lingua, che è viva e alla costruzione della quale partecipiamo non solo con le storie che possiamo inventare e raccontare, ma con la nostra storia personale (chi sarà che avrà definito per la prima volta un tizio "truculento"? E cosa gli sarà accaduto o cosa avrà visto per arrivare a dire così e non semplicemente "violento" o "cattivo"?).

Con una lingua, una penna e un foglio bianco possiamo cominciare a scrivere. E qual è il passo successivo?
Lo scoprirete alla prossima puntata.



domenica 14 novembre 2010

Come fare soldi (e tanti) con Mussolini

Chi conosce un poco il mondo editoriale italiano sa chi è Elisabetta Sgarbi.
Elisabetta Sgarbi è il direttore editoriale della Bompiani. Scrittrice a sua volta, critica d'arte e cinematografica, regista cinematografica, è una delle personalità più influenti della cultura di questo Paese.

Qualche tempo fa, ho seguito una sua lunga intervista sulla questione dei diari di Mussolini, che la Bompiani si apprestava a mandare in libreria. La Sgarbi, pressata da un giornalista per niente accondiscendente come Giuseppe Cruciani di Radio 24, asseriva di non essere affatto certa dell'autenticità dei diari e che comunque non si trattava per lei di un punto dirimente. Davanti allo stupore e all'insistenza dell'intervistatore, si inalberava e rilanciava affermando che - veri o no - la Bompiani avrebbe pubblicato i manoscritti con il titolo I diari di Mussolini. E rifiutava di ammettere che ciò sarebbe equivalso a ingannare o quanto meno spingere il lettore su una strada equivoca.

La Sgarbi è una gran dama e ha mandato alle stampe negli anni libri di valore straordinario, tanto in saggistica quanto in narrativa. Io lo so e anche Cruciani lo sa. Ecco perché il giornalista, chiuso il tempestoso collegamento, ipotizzava quel giorno che la Sgarbi fosse stata costretta a digerire un'operazione di puro mercato, alla quale personalmente doveva essere contraria. Ipotesi benevola ma verosimile.

Ebbene, in questi giorni I diari di Mussolini sono finalmente arrivati in libreria e proprio con tale titolo. Contrariamente a quanto detto dalla Sgarbi in radio, hanno però un sottotitolo. Il sottotitolo, in piccolo e tra parentesi, è (Veri o presunti). Ce n'è abbastanza per rimanere di sale.

Un tempo la Bompiani, e ogni altra seria casa editrice, avrebbe fatto una scelta di campo netta. Avrebbe preso per veri i manoscritti, pubblicandoli come i diari del Duce, senza alcun sottotitolo. O li avrebbe giudicati un falso, rinunciando alla pubblicazione. Ecco che invece oggi si sceglie volutamente di restare a metà del guado. L'imperativo è monetizzare a tutti i costi: e niente promette una monetizzazione più efficace e penetrante del capo del fascismo. Quanto al sottotitolo, lo si utilizza come foglia di fico che lava la coscienza davanti a storici e pubblico più smaliziato. L'operazione di mercato è smaccata, tanto smaccata che lo si dichiara in copertina. Forse la Sgarbi l'ha subita, forse no. Certo, appare troppo comodo scaricare il giudizio finale sul lettore, al quale nel frattempo vengono scuciti 21,50 euro. Inoltre, questo è solo l'inizio. Il volume in libreria è infatti il (vero o presunto) diario mussoliniano del 1939. Ne seguiranno altri quattro. Fate un po' voi i conti.

domenica 7 novembre 2010

Ma cosa augurare agli sposi se non "buon matrimonio"?

Mai io e il mio socio, coautore e amico abbiamo discusso su questo blog intervenendo l'uno su un testo dell'altro. Ma questa volta non posso trattenermi, anche perché dicendo la mia sul post precedente a questo, che farete quindi meglio a leggere prima di proseguire, spero anch'io di stimolare i lettori a un intervento.

Dunque. Due persone che il mio amico stima abbastanza si sposano. Lui plaude agli sposi ma non si sente di augurare loro... niente di ciò che essi desiderano. Insomma, prima di sottoporre il matrimonio come "istituto giuridico" (accidenti, che freddezza!) a un'analisi antropologico-cultural-psicologico-statistica bisognerebbe almeno chiedersi perché tanti milioni di uomini e donne nel mondo si ostinano, semplicemente, a desiderarlo.

Non ho detto che tanti uomini e donne ci riescono, a viverlo con soddisfazione: di questo parliamo dopo. Dico che sono in tanti a desiderarlo. Oggi lo vogliono anche molti omosessuali, e in quei Paesi in cui ottengono questo tipo di riconoscimento festeggiano pure.
Il mio amico non ignora questo aspetto del problema: infatti, invece che augurare ai suoi conoscenti di riuscire nel loro intento suggerisce che dovrebbero essere prudenti, che dovrebbero imparare la lezione dalle loro esperienze negative. Ricorda anche la loro età: insomma, basta con questi sogni da adolescenti!

Non manca anche l'argomento pseudo-scientifico: l'uomo, in definitiva è un animale (cosa assolutamente certa) come gli altri (cosa assolutamente sciocca: anche il leone non è la scimmia, perché l'uomo non dovrebbe essere - come è, infatti - un animale con le sue specifiche caratteristiche?).
Insomma: è sbagliato desiderare, ed è sbagliato, desiderando, sbagliare. Ma queste cose sono tipicamente umane!

Dopodiché le statistiche, e soprattutto i racconti pieni di delusione, sofferenza, solitudine, orgoglio ferito, disinganno... e a volte sollievo di tanti separati e divorziati li conosco benissimo. Ma conosco anche la vita di tante persone come me, che il matrimonio lo vivono benissimo.
Eh sì, io il matrimonio l'ho desiderato, insieme alla mia fidanzata, Rita, una ragazza che, la prima volta che l'ho vista mi sono detto: "ma allora esiste davvero!". Per stare con Rita ne ho fatte di tutti i colori, e anche lei si è impegnata parecchio. Eravamo e siamo così innamorati che non avremmo accettato di vivere in nessun altro modo che da... sposati. E dopo 15 anni è ancora così.
Ma che vuol dire tutto questo? Vuol dire che quando le ho detto per la prima volta "ti amo" intendevo quel che significano queste parole: "ti voglio nella mia vita, oggi e se possibile anche domani". Vuol dire che quando ami non ne metti via un po', giorno per giorno, fino a raggiungere una quota di amore donato raggiunta la quale puoi dire: "Ecco, ce l'ho fatta! Anche questa è finita".
L'amore non si accumula: ne vuole sempre di più, quindi ne vuole per domani e per domani l'altro. Infatti, appena questo slancio si affievolisce, subito si teme di non poter andare avanti, che è esattamente ciò che l'innamorato vuole. E allora o si corre ai ripari, o si comincia a distaccarsi, cosa che capita, lo so, a moltissimi.

Cosa che potrebbe capitare anche a me e a Rita. Ma per come mi sento, oggi, spero proprio che chi mi vuole bene - anche il mio caro amico Maurizio - faccia il tifo per noi e ci dica, di cuore: "Viva gli sposi! Viva il matrimonio!".

Concludo con due osservazioni:
1. Non so bene perché, ma ho in famiglia, tra gli amici e tra i conoscenti, sempre più coppie che convivono per anni e poi si sposano. Non so bene perché, ma quando poi li incontro - dopo un anno, due ecc. - mi dicono: "Sono sicuro/a: sposati è diverso".
2. Pur essendo sempre più un credente, non ho citato, fin qui, né il buon Dio, né la Chiesa, né lo Stato. Nel vangelo di Giovanni si dice che un giorno due sposi invitarono (loro, non lui) Gesù al loro matrimonio. Gesù non aveva ancora cominciato la sua missione, la sua predicazione, il suo insegnamento. Il matrimonio c'era già. Succede anche oggi: quando si comincia a ragionare di "matrimonio cristiano", di "spiritualità degli sposi" e di altre attenzioni che, lo capisco benissimo, per i non credenti sono amenità, il desiderio di amore per sempre c'è già. E' scritto ancora negli SMS degli innamorati adolescenti.
Insomma: è una cosa laicissima, originaria... e bella. Perché nella vita il bello è provarci, se no che vita è?

Viva gli sposi! Anche perché, lo dico sempre: ne hanno bisogno.



sabato 30 ottobre 2010

Viva gli sposi! Abbasso il matrimonio!

Oggi io e Natalia, la mia compagna, siamo stati a un matrimonio.
Si sono sposati due nostri vicini di casa. Due persone molto simpatiche e buone, un po' avanti con gli anni. Lei ne ha 57, lui 69. Entrambi già sposati in passato, con esiti infausti.
Mentre questa mattina mi passavano accanto, in giardino, ho detto: "Viva gli sposi! Abbasso il matrimonio!". L'ho detto, non gridato. Ma nemmeno a mezza voce, non così piano, perlomeno, da non essere udito dalla coppia. Loro due, infatti, mi hanno sentito e si sono messi a ridere.

Quella frase esprimeva in pieno il mio sentimento del momento.
Empatia per gli sposi, cui sono molto vicino, e avversione per il legame giuridico-istituzionale che si stava per creare.
Ma non ero così sicuro che tale mia percezione fosse condivisa o addirittura comprensibile ad altri e per questo non l'ho proclamata a voce troppo alta.
A dire il vero, io stesso fatico a mettere a fuoco la questione.

Tralascio il precedente fallimento matrimoniale dei nostri amici. Già agli atti, con il suo carico di dolorose esperienze, avrebbe dovuto indurli a maggiore prudenza. Ma non è questo il punto centrale.

Il punto centrale è un altro.
L'uomo per natura non è monogamo.
Non ce ne offrono abbondanti testimonianze solo la cronaca, le indagini sociologiche o le nostre personali conoscenze. Ce ne dà prova anche la scienza. Nel mondo animale lo scambio di coppia è norma generalizzata.
L'uomo invece si sforza di essere monogamo.

Per cause religiose, economiche e giuridiche ha creato il matrimonio, istituzionalizzando il legame tra individui di sesso diverso. Queste cause sono tante e vanno dall'esigenza di trasmettere e conservare il patrimonio nell'ambito della stessa stirpe alla necessità di imporre una morale più rigida, univoca e quindi controllabile al complesso nucleo delle società urbane. Proprio per tali motivi e tali fini si è anche preteso di aggiungere al contratto matrimoniale la clausola della monogamia.
Trasformando insomma tutta la faccenda in una questione culturale.
Ed è proprio ciò che non capisco.

Molte delle cause e degli scopi che sottostanno al matrimonio oggi sono venuti meno. Viviamo in una società che amplia quasi a dismisura i limiti delle libertà individuali, accetta comportamenti e abitudini fino a poco tempo fa inammissibili, tutela i diritti di chi vive o nasce nel matrimonio e fuori dal matrimonio.

E allora chiedo: perché molti uomini e donne si ostinano a creare un legame che li impegna vita natural durante? Quando mai è saggio prendere un impegno che non si è sicuri di poter assolvere? E in più: perché nello sposarsi si obbligano alla fedeltà? Qui si va addirittura contro natura.

Qualsiasi ragionevole risposta a tali dubbi è benvenuta.

domenica 24 ottobre 2010

Perché raccontare storie

Ieri pomeriggio ho tenuto ben volentieri una presentazione del nostro ultimo romanzo in una piccola, bella e attiva libreria di Saronno. Definisco comunque "romanzo" il nostro Io ti aspetto anche se, come ho spiegato durante l'incontro, si tratta per la precisione di una docu-fiction: la storia che viene raccontata è vera, ma si legge, appunto, come fosse un'opera di fantasia.

Qualcuno potrebbe domandarsi: ma se la storia che presentate è vera e per scriverla intervistate i protagonisti, raccogliete informazioni e documenti, studiate l'ambiente in cui hanno vissuto le loro vicende... che differenza c'è rispetto a un'inchiesta giornalistica? E soprattutto: cosa ci guadagna il lettore dal leggere una versione romanzata di un fatto vero?

La domanda è emersa durante la presentazione e per rispondere non ho potuto fare a meno di riflettere sull'attualità. Prendete il recente dramma dell'omicidio di Sara. Non ho nessun bisogno di dire altro, per evocare il fatto, i protagonisti, l'ambiente, luoghi, orari e mille altri particolari serviti al pubblico a tutte le ore del giorno e della notte da televisioni, internet e giornali.
Ma riflettiamo: dopo che abbiamo seguito (se proprio ci teniamo, ma sembra che siano in milioni ad appassionarsi a queste vicende) maratone televisive di ore e ore, con servizi, pareri di esperti, dibattiti e approfondimenti cosa manca? Cosa manca davvero?
Manca la cosa che solo uno scrittore può tentare e che è bene che uno scrittore tenti, per il bene di tutti: cercare di immedesimarci nei protagonisti, piuttosto che giudicarli.
Il giornalista, infatti, cerca di impressionare lo spettatore scovando particolari inediti, e se non ne trova li suggerisce: "Lui dice di aver violentato la ragazza, anzi: il suo cadavere!", "Lei prima si diceva amica della cugina, ora si scopre che la odiava, ecco le prove!" e via dicendo. Il pubblico inorridisce, si stupisce, disapprova, condanna, fa paragoni tra la propria vita e la qualità delle proprie relazioni e questo spettacolo bestiale...
Ma chi tenta veramente di capire? E cosa vuol dire davvero "capire"?

Lo scrittore viene dopo il giornalista, dopo l'espertone e le sue frequenti banalità, dopo gli investigatori, dopo i giudici. Lo scrittore arriva quando le acque si sono calmate, che per noi significa quasi sempre quando la storia è dimenticata. E a questo punto lo scrittore tenta di raccontare e raccontare è il più antico, il più umano, il più profondo... il più sacro degli strumenti di comprensione a disposizione del genere umano. E questo perché per raccontare bisogna almeno tentare di immedesimarsi nel protagonista. E perché il lettore segue davvero il racconto solo se accetta di immedesimarsi nel protagonista.

Certamente si può banalizzare e forzare una vicenda umana anche raccontandola: si prende "il cattivo", gli si appiccicano un paio di caratteristiche odiose e gli si contrappone "la vittima", magari anch'essa ridotta a pochi tratti semplificatori. E il gioco è fatto.
Sì, il gioco è fatto: ma per fare una storia debole, superficiale. Per simili semplificazioni, possibili e infatti presenti sui banchi delle librerie, ricordo sempre la definizione di una poetessa, Janice Kulyk Keefer: "favole senza pane", cioè storie senza alcuna sostanza, senza nutrimento, aria che riempie lo stomaco di nausea.

Qui sta l'artista e qui sta il suo servizio all'umanità. Dopo che i riflettori sono stati spenti e spente le telecamere, chiusa la porta del carcere o lasciato libero (se è giusto farlo) un "presunto colpevole"... lo scrittore, paziente, racconta e suggerisce al lettore: "ma hai provato, una volta o l'altra, a immaginarti nei panni di un uomo in preda a una passione magnetica e devastante? Hai provato una rabbia incontenibile? Sai che è possibile che il tuo equilibrio vada in pezzi, che i tuoi vizi ti vincano, che i tuoi più inconfessabili desideri prendano il controllo su di te? Hai mai riflettuto davvero sugli effetti che i tuoi atteggiamenti hanno sul tuo prossimo?".
Leggere un buon romanzo serve a questo, fin dalla notte dei tempi: prima di giudicare, metterci alla prova con un "se io fossi". E lasciarci comunque al sicuro, nel letto, la sera, con in mano un innocuo libro.
Il guadagno di questa operazione? Il frutto più importante, il dono di cui, alla fine (ma se possibile anche in ogni momento della nostra vita...) avremo bisogno: la misericordia e l'ampiezza di sguardo, su noi, sugli altri, sul mondo, su tutto.

Perché se Dio non esiste, come molti pensano, bisogna ben che ci attrezziamo, se dobbiamo essere noi Dio, come quasi tutti siamo abituati a fare.


domenica 17 ottobre 2010

IRS e Lega Nord: che significa stare tra la gente?

Durante l’incontro bolognese dei simpatizzanti di iRS - indipendentzia Repubrica de Sardigna -, di cui ho già parlato, ho sentito più di una persona affermare che l’unica e vera somiglianza tra iRS e Lega Nord sta nella capacità di farsi presente sul territorio. Unica e vera, contro l’assai più frequente accostamento di iRS a Lega Nord a proposito di separatismo. Vorrei dunque soffermarmi su questo particolare e analizzarlo da vicino.


Negli ultimi quindici anni ho risieduto in tre centri diversi della provincia di Varese: Origgio, che ha circa settemila abitanti, Saronno, che ne conta quasi quarantamila, e Tradate, che ne ha poco meno di diciottomila. Per quel che ho visto, sono tutti paesi e città dalla forte economia e dai servizi efficienti. A Origgio il sindaco è il leghista Luca Panzeri, quarantacinquenne, al secondo mandato e rieletto nel marzo di quest’anno con il 38% di preferenze personali. A Tradate, dove vivo ora, il sindaco leghista Stefano Candiani è anch’egli un quarantacinquenne al secondo mandato: ha avuto alle elezioni del maggio 2007 oltre il 60% di preferenze personali. Una percentuale così elevata da spingermi a chiedere a più persone cosa trovassero in lui di particolarmente valido. Su un altro versante, è egualmente emblematico il caso di Saronno, dove la Lega è stata per ben dieci anni all’opposizione della giunta di centro-destra, senza per questo mostrare meno vigore o radicamento tra i cittadini. Dallo scorso giugno, caso più unico che raro, a Saronno il partito più forte è il PD, causa scissioni interne al PDL, e la Lega è ancora la voce d’opposizione più sonora. In tutti questi posti ho avuto modo di conoscere diversi votanti e amministratori leghisti, facendomi un’idea di cosa significhi per loro stare sul territorio.


Per i cittadini la capacità dei leghisti di stare sul territorio è incarnata prima di tutto dalla loro costante presenza fisica in piazza. Negli anni in cui ho abitato a Saronno, non passava domenica che i militanti della Lega non fossero agli angoli delle strade, per qualche raccolta di firme, per un comizio, per un concerto di musica folk, per la distribuzione del foglio di sezione. Ogni pretesto era buono per stare tra la gente. Che piovesse o facesse un caldo torrido, loro erano lì, con banchetti, gazebo e fazzoletti verdi al collo.

In secondo luogo, per i seguaci di Bossi avere un amministratore leghista significa contare su uno dei loro, anzi, su «uno di noi». A livello locale, non ci sono politici professionisti. Tutti gli eletti emergono dalla base, parlano la lingua della base, conservano le idee della base e mantengono il mestiere che gli dà da mangiare. Panzeri, a Origgio, è un operaio metallurgico, Candiani, a Tradate, è un industrialotto che produce packaging per cosmetici. In altre parole, c’è una identificazione quasi totale tra base e amministratori: la prima delega la propria fiducia ai secondi e sa di andare sul sicuro. Non teme cattive sorprese e non ne riceve. Ancora più precisamente: militanti e amministratori della Lega hanno una elevata e molto prosaica capacità di essere consonanti con i loro elettori. Tanto elevata da lasciare a bocca aperta.

Terzo elemento, e sia detto senza voler contribuire ad alcuna mitologia leghista. I militanti e gli amministratori della Lega nutrono e mostrano per la propria terra una passione profonda, largamente percepita da elettori e simpatizzanti. Tale passione è il loro primo interesse e motore d’azione ed è perciò che, al confronto, gli attivisti degli altri partiti sembrano vecchi mestieranti. Così si arriva al paradosso che la base della Lega Nord, partito di vita ormai pluridecennale, conserva un entusiasmo e una freschezza neppure mai acquisiti da chi sta in PD e PDL, partiti di nascita recentissima e che dovrebbero viaggiare su un abbrivio ben maggiore.

Questa passione genera l’ultimo dei fattori caratterizzanti lo stare sul territorio della Lega Nord. I suoi amministratori hanno un programma chiaro e limitato, che difendono con i denti: realizzare la volontà dei loro elettori, senza guardare in faccia nessuno. A tale fine strategico ho visto negli anni gli amministratori leghisti sacrificare molto: hanno rinunciato ad alleanze che sembravano immarcescibili o, al contrario, hanno accettato di legarsi a personaggi che poco hanno a che spartire con le idee di Bossi. Da questo punto di vista, nonostante il peso notevole della Lega sul piano nazionale, il Carroccio è rimasto una formazione essenzialmente locale: il municipio, la provincia e la regione vengono, ai rispettivi livelli amministrativi, prima di ogni altra cosa. Tale tattica e tale pertinace difesa degli interessi del circondario pagano: la gente di qui vota Lega Nord in massa.


Non conosco ancora abbastanza iRS e la sua azione per valutare sulla base di questi elementi quanta somiglianza ci sia tra lo stare tra la gente di leghisti e indipendentisti sardi. Voglio invece mettere in rilievo cosa trovo di inadeguato in tale paragone.

Non so se la Lega sia nata e cresciuta intercettando un malessere già presente nel popolo del Nord o se sia stata particolarmente abile nel suscitarlo e cavalcarlo. Fatto sta che l’ordine del giorno dei leghisti si è composto nel tempo mettendo in fila tutto ciò che qui nel settentrione non va bene e dandone la responsabilità a Roma. La capacità dei leghisti di percepire la “pancia” degli elettori ha permesso loro di crescere nei consensi, ma solo per portare avanti prima di tutto battaglie di chiusura e opposizione, né di apertura né propositive. Essere presenti sul territorio, a queste condizioni, è forse perfino troppo comodo.


I leghisti sono nazionalisti, al punto da avere inventato una nazione che non c’è e scagliarsi contro le altre nazioni: prima i terroni, poi gli extracomunitari. I leghisti sono spesso violenti nella lingua e nei sentimenti, da Bossi in giù, e alimentano così uno spirito pubblico di scontro. I leghisti rimarcano continuamente i torti subiti da Roma e sono nei confronti della capitale apertamente rivendicazionisti. La difesa degli interessi locali non è mai inclusiva, ma escludente e in definitiva impoverente, così come la passione per la propria terra. La base del partito nutre sentimenti analoghi ed è su tale direttrice che si chiude, nel segreto dell’urna, il circuito elettore-amministratore leghista.


IRS - nei suoi principi - non è niente di tutto questo ed è perciò che, a mio parere, lo stare tra la gente di iRS sarà profondamente diverso e più difficile di quello leghista. IRS non promette l’indipendenza come panacea di tutti i mali della Sardegna, ma si propone di contribuire a risolvere quei mali prima dell’indipendenza. Non vuole l’indipendenza contro qualcuno, ma per i sardi e per chiunque vorrà partecipare al loro progresso. Quanto agli amministratori di iRS, non dovranno aiutare i sardi ad essere solo più ricchi, ad avere un lavoro migliore, ad usufruire di servizi più efficienti. Se è vero ciò che ho sentito a Bologna, iRS desidera rendere i sardi migliori nel cuore e nella mente: compito obbiettivamente straordinario, molto al di là di quella cura degli interessi materiali che costituisce il primo e spesso unico obbiettivo dei nostri politici. Nel contesto attuale, credo che lavorare per i sardi significherà talvolta lavorare contro di essi e loro malgrado. Proprio perciò sarà utile e interessante seguire l’attività degli amministratori di iRS e verificare, giorno per giorno, il loro modo di stare tra gli elettori. Nella speranza di averne parole e fatti davvero nuovi.

(Postato da Maurizio Onnis)

domenica 10 ottobre 2010

Il meraviglioso mondo del piccolo calcio

Non ho mai parlato della mia ormai lunga esperienza come dirigente accompagnatore della squadra di calcio dove gioca mio figlio, oggi dodici anni, che ha cominciato a tirare calci al pallone a otto.
Il titolo "dirigente" non deve trarre in inganno. Si tratta di uno o più papà che fanno volontariato: accompagnano i giocatori in macchina nelle trasferte, concordano con le altre squadre orari e questioni tecniche spicciole, danno avvisi ai genitori, portano in panchina le borracce con l'indispensabile "acqua miracolosa" che spruzzano generosamente su botte e storte e la borsa medica. Ah, sì: fanno anche i guardalinee, qualche volta gli arbitri, scrivono la lista dei giocatori da consegnare all'altra squadra, scrivono il referto della partita da inviare poi in Federazione, consegnano e ritirano le maglie e poi le portano in lavanderia, si assicurano che i ragazzi puliscano le scarpe infangate prima di entrare negli spogliatoi, vigilano che non si facciano male facendo la doccia, ascoltano le richieste delle mamme (comprese chiamate al cellulare dalla tribuna mentre sono in panchina: "dì al mio piccolo di mettere la giacca, è sudato!").

Si tratta di un'attività tutto sommato piuttosto divertente. Tutto il calcio dei ragazzi è di per sé divertente e stare loro vicini mentre fanno una cosa che gli piace così tanto ti rilassa anche come genitore.
A guastare la festa, o almeno a provarci piuttosto spesso, sono una parte dei genitori. Specialmente quelli che sono convinti - a volte, ma non sempre, con qualche motivo -, che il loro figlio sia un campione.
Anche in questo caso quasi sempre il soggetto in questione è solo un ragazzo che si diverte insieme ai suoi compagni. Ma si sa: ognuno ha diritto ha coltivare le proprie ambizioni e a cercare di raggiungere la felicità. E' quando la felicità viene fatta coincidere con il sogno di diventare (e guadagnare) come Pirlo, Pato, Ronaldinho o Nesta (si capisce che tengo al Milan?), che cominciano i guai.

Insomma, vi risparmio gli esempi (immaginabili) di offese personali, di alzate d'orgoglio, di mugugni e tradimenti della squadra (con rammarico del ragazzo stesso) provocati dall'attivismo dei genitori. Dico solo la morale che ne traggo: sembra che siamo capaci di trasmettere molte cose, ai nostri ragazzi, ma fra tutte la più difficile da insegnare è la gratuità.
E la semplice, magari sufficiente, bellezza di stare insieme dando calci al pallone, ottenendo il massimo da ciascuno e sfogando le migliori energie nel dare se stessi alla squadra.

Sarà che mi lamento perché dopo cinque anni sono arrivato, con mio figlio, al livello in cui per portar via un calciatore dalla sua squadra cominciano a girare (piccole) offerte di soldi e favori. Ma se non è nello sport che valgono più le soddisfazioni morali che il resto, dove sarà possibile parlarne ai ragazzi con sincerità?

E infine: guarda caso, e lo dico dopo lunga osservazione, sono proprio le squadre che mirano ad attirare i migliori e si vantano di praticare il calcio più competitivo, quelle in cui ti capita di vedere, mentre giocano, che hanno ragazzi che lo fanno con cattiveria e sempre meno gioia.
Gioia e gratuità, infatti, camminano insieme.


domenica 3 ottobre 2010

Un impegno politico a Bologna


Ieri ho sacrificato il sabato per una escursione a Bologna, con giustificazione politica. Sono infatti stato all’assemblea generale di iRS-Disterru. Dove iRS sta per indipendentzia Repubrica de Sardigna, vale a dire «indipendenza Repubblica di Sardegna» e Disterru sta per «disterrati», cioè «strappati dalla propria terra». In poche parole, i sardi che vivono fuori dall’isola. IRS, nato come movimento circa dodici anni fa, si è dato struttura di partito solo nel gennaio di questo 2010 e propugna l’indipendenza della Sardegna, Stato libero, europeo e mediterraneo, fuori dalla formazione statuale italiana. Non quindi una regione italiana più autonoma rispetto a Roma, né “quasi” sovrana nell’ambito di un’ipotetica Italia federale, ma proprio un Paese a sé, che abbia con l’Italia i rapporti usuali tra Stato e Stato. IRS ha partecipato alle ultime elezioni amministrative, lo scorso giugno, attestandosi intorno al 3% dei voti e conquistando diversi consiglieri provinciali e numerosi consiglieri comunali.


Ho sentito ieri parole belle, interessanti e in parte anche originali. IRS è infatti un partito rigorosamente non nazionalista e non violento. Non nazionalista perché ritiene i sardi una nazione, ma non certo superiore alle altre, e vuole aprire l’isola a tutti i contributi fattivi, da chiunque giungano, purché volti al bene dei sardi stessi e dell’intera comunità umana. Non violento perché rifiuta l’uso della forza in politica: particolare decisamente nuovo nel contesto europeo, animato da decenni da movimenti indipendentisti che hanno edificato tristi storie di bombe e sanguinosi attentati (vedi l’ETA basca e l’IRA nordirlandese). All’assemblea hanno preso parte, tra gli altri, la segretaria del partito, Ornella Demuru, e l’ideologo fondatore, Franciscu Sedda. La prima ha trentotto anni, il secondo trentaquattro, e non è un dettaglio insignificante. Erano presenti infatti a Bologna una sessantina di persone e la stragrande maggioranza aveva meno o poco più di trent’anni: la giovinezza dei militanti, che di per se stessa è sinonimo di forza, nuove idee ed entusiasmo, è ciò che più mi colpisce di iRS. Perché il futuro appartiene certamente a persone come loro e non a quelle che hanno già avuto la possibilità di lavorare nella storia e sulla storia: queste hanno già dato, e sarà la storia stessa a giudicarne l’operato.


Io non ho mai fatto politica attiva fino al 2008. La nascita del PD, allora, mi sembrò segnare l’inizio di un’epoca nuova per la società italiana e pensai che dall’unione delle tradizioni cattolica e socialista potesse venire un gran bene per il nostro Paese. Da lì presi le mosse per quasi due anni di militanza attiva tra i democratici, conclusisi con l’abbandono e una dichiarazione d’impotenza. Ritenni e ritengo ancora oggi, come molti altri, che il PD abbia tradito rapidamente le premesse ideali da cui nacque, ripiegando invece sulla più collaudata prassi politica nostrana: potere ai notabili, lontananza dalla gente, scarsa tensione etica, cedimento spinto al compromesso e soprattutto mancanza di un programma chiaro.


Ammaestrato da quella esperienza non posso certo aprire d’acchito un credito illimitato per iRS. So bene che la prova della sua bontà deve venire dai fatti e cioè dal lavoro dei suoi amministratori. I quali dovranno dimostrarsi capaci prima di tutto di agire senza farsi corrompere o manovrare o sviare. Poi di operare sul territorio realmente a fianco di chi li ha votati, e non solo per migliorarne la qualità di vita materiale, dato che i sardi dopo tutto non stanno così male. Dovranno lavorare soprattutto per un miglioramento del loro animo e della loro mente, generando e infondendo nei sardi il coraggio necessario a prendere finalmente in mano con decisione il proprio destino: compito straordinariamente impegnativo. Solo quando tutto ciò si sarà inverato potremo affermare che iRS è un partito nuovo.


Detto questo, voglio precisare per quale motivo mi sono avvicinato a iRS. Da un bel po’ di tempo, già prima di accostarmi al PD, ho maturato una forte coscienza della mia doppia natura di sardo e italiano. E ho spiegato in cosa consista in altri interventi su questo blog, etichettati nella categoria “identità”. Vivo tale doppia coscienza in modo ambivalente: talvolta con naturalezza, in altre occasioni percependone la contraddizione. Senza però che l’una identità prevalga sull’altra e senza che io, almeno fino a questo momento, voglia o possa dare la precedenza a una di esse. Ho passato ventitré anni della mia vita in Sardegna e ormai ventiquattro sul continente: sono figlio di entrambe le culture. Giudico comunque del tutto legittima, storicamente e appunto culturalmente, l’aspirazione dei sardi all’indipendenza. Non so se essa verrà. Non so se a farsene strumento sarà iRS. Ma certamente la ritengo ammissibile. Ed è una prospettiva insieme affascinante e inquietante. Non mi è dato di prevedere, oggi, cosa ne penserò in futuro. La riflessione su questo tema, mia e di molti miei conterranei, è aperta.

(postato da Maurizio Onnis)

lunedì 27 settembre 2010

Età e pastiglie

Tornare dalle vacanze significa a volte rivedere persone care dopo un periodo di lontananza. Così può succedere che le troviamo cambiate. E succede soprattutto con i bambini: due-tre settimane di crescita di un bambino di sette o otto anni, per esempio, possono farsi notare ("ma come diventa grande!").

A me invece è accaduto con i miei genitori, due bravi ragazzi di 78 e 70 anni, lui e lei.


"Senectus ipsa est morbus": la vecchiaia, da sola, è già una malattia. Così dicevano gli antichi Romani. Quando poi i disturbi di una qualche malattia vera e propria si acutizzano, l'anziano mostra minore resistenza e si scoraggia, si scopre debole e fragile, vulnerabile e minacciato.

La salute dei miei genitori è un tema che mi fa riflettere spesso. Come tutti i figli di mezza età, impegnato in quella fase della vita in cui devo e voglio dare il massimo (nel lavoro, con i figli, nei miei sogni e ambizioni, nelle mie passioni) ho bisogno che stiano bene.

E così sono molto grato ai progressi della medicina e al buon funzionamento del sistema sanitario. Perché mio padre vive da molti anni prendendo 10-12 pillole al giorno, e oggi ho visto per la prima volta la lista delle pillole quotidiane di mia madre. Sono 16.

Poi ci sono gli esami clinici. Papà li fa e li rifà tutti, in continuazione. Ne ha bisogno per il cuore, il sangue, il fegato, i reni, ma non mancano controlli ai polmoni, allo stomaco, alla vista. Mamma ha problemi al sangue, ma anche una gastrite spesso acuta e fasi di ingrassamento e dimagrimento alterne e da tenere sotto controllo.


Insomma, sono un po' sfortunati. Eppure, come dicevo, grazie alla medicina e all'assistenza pubblica vivono una vita relativamente serena e attiva: sono loro ad accogliere i nipoti al ritorno da scuola e a preparare loro il pranzo ogni giorno, frequentano la parrocchia e partecipano a molte iniziative, escono in auto per fare la spesa al supermercato e così via.


Ogni fase della vita, quindi, riceve oggi le sue cure e le sue attenzioni. Assorbe risorse, sfrutta competenze e strutture, stimola la ricerca di nuove soluzioni. E in questo settembre, rivedendo i miei dopo quasi un mese, ancora più minacciati da vecchi e nuovi malori, torno a sperare, insieme ai miei fratelli, che ci sia ancora una nuova medicina, un altro esame, una buona idea del medico di base e degli specialisti.

E mi domando: ma potremmo mai, di nuovo, essere anziani... e poveri? Potremmo sopravvivere alla fine dello Stato sociale? E se così accadesse, anche solo in parte, sapremmo riprenderci sulle spalle, noi più giovani, l'assistenza dei nostri anziani sia dal punto di vista economico che da quello psicologico?


Domande.

Ci penserò ancora, certamente. Qualcosa mi sfugge, in tutto questo discorso. E poi, anche se non voglio pensarci, so bene che sono io, a mia volta, che non potrò sfuggire alla mia, di vecchiaia.


Con un sincero augurio di buona salute e speranza a tutti.


sabato 4 settembre 2010

Io ti aspetto

Luca Castellitto, vale a dire io e Luca, approdiamo in libreria con un nuovo libro. Si tratta di Io ti aspetto, storia vera di Natasha e Annalisa. Natasha è una diciannovenne bielorussa giunta in Italia per la prima volta quando aveva sei anni, come orfana e bambina di Chernobyl. Annalisa è una ex single cagliaritana: lei per la prima volta ospitò Natasha quasi quindici anni fa e lei oggi è la sua madre adottiva. Perché sì, le due donne nel corso del tempo, delle visite ripetute estate dopo estate, si sono legate strettamente l'una all'altra, con amore materno e filiale, fin quando hanno deciso che volevano vivere insieme per sempre. Creando una nuova famiglia. Dandosi, Annalisa, la figlia che non aveva mai avuto. E Natasha una nuova mamma, che sostituisse quella naturale, strappatale dalla legge perché violenta. Così è nata la prima adozione internazionale per un single italiano, sancita dalla Corte Costituzionale con una sentenza del 2005. E così oggi Annalisa e Natasha vivono assieme, da madre e figlia, a Cagliari, al termine di una vicenda affettiva e giudiziaria lunga e appassionante. Come solo certe storie vere possono essere.

Il libro è uscito per Piemme ed è in vetrina dallo scorso sabato.
Speriamo che incontri il favore del pubblico, come accadde l'anno scorso per Il sogno del bambino stregone, e che rappresenti per molti un buon ritorno dalle vacanze.
Perché anche questo auguriamo a tutti: che i prossimi mesi passino in pace, in un lavoro proficuo. Per noi sarà così. E anzi, a dire il vero ci siamo già messi all'opera. Il romanzo del 2011 è in cantiere...

Bentornarti in malatidiparola, il blog di Maurizio Onnis e Luca Crippa.

giovedì 5 agosto 2010

Un saluto dalle vacanze

Il nostro blog è in vacanza fino a inizio settembre. Lo avrete capito dall'interruzione del ritmo dei nostri aggiornamenti (di solito un nuovo intervento ogni sabato o domenica).
Non che ci manchino le idee, ma per qualche settimana non ci sembra sbagliato interrompere anche il nostro discreto flusso di parole. Certo, quest'anno l'agosto sembra ricco di argomenti di interesse comune, argomenti importanti. Mai visti, ad esempio, tanti deputati in aula dopo il 30 luglio. Ma anche qui, a ben guardare, tutto si semplifica, no? E' a tutti ormai evidente, io credo: la politica italiana, nel bene e nel male, è Berlusconi, solo Berlusconi. Ne è definitivamente convinto anche lui. E quando sarà stanco e si ritirerà, ci troveremo con una classe politica, a destra e a sinistra, tutta priva di idee e di credibilità: gli uni perché per anni e anni avranno fatto pensare e decidere solo il "capo", gli altri perché, a quanto sembra, avranno solo pensato, per anni, a farlo fuori. E non vale solo per i deputati e i senatori. Vale anche per i cittadini...

Ma ecco: ci sono cascato. Avevo detto che era bene tacere, per un mese almeno. E riflettere. Magari per giungere a giudizi più pacati. O per ricominciare a fare progetti costruttivi. E invece, appena mi ci sono messo ecco il fiume nero dello scontento che esce fuori.

Perciò silenzio. E auguri di buone ferie, per chi ne può godere. Io, approfittando del tempo libero, giocherò con i miei bambini, leggerò qualche buon libro e ascolterò molto jazz. E voi?

venerdì 16 luglio 2010

Cos'ha in testa Kathryn Bigelow?

Ho visto The hurt locker, il film di Kathryn Bigelow che al principio di marzo ha vinto sei Oscar, compresi quelli per la migliore pellicola, per la migliore regia e per la migliore sceneggiatura originale. E dire che quando è uscito nelle sale è passato praticamente inosservato. Snobbato dal pubblico, ha incassato pochissimo, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa. Un flop clamorosamente smentito dalla pioggia di premi ricevuti sulle due sponde dell’Atlantico. Chi è del mestiere, insomma, ne ha riconosciuto il valore artistico e spettacolare. Perché abbia lasciato indifferenti gli spettatori è un mistero. La mia ipotesi è che l’Iraq al cinema non interessi nessuno. Non ancora, per lo meno, a guerra ancora in corso e ragioni e torti da capire fino in fondo.

Il film narra la storia di una squadra di artificieri dell’esercito Usa, alle prese ogni giorno con i pericolosissimi ordigni che, nascosti ai lati delle strade e pronti ad esplodere, mettono a rischio la vita di civili e soldati. La macchina da presa segue i protagonisti con lo stile nervoso e adrenalinico che è marchio di fabbrica della Bigelow dai tempi di Point Break, vale a dire da circa vent’anni. E si sofferma soprattutto sul volto, il corpo, le azioni e le emozioni di Will James, sergente e caposquadra, l’uomo che indossa la corazza e concretamente mette le mani nelle bombe, con il compito di disinnescarle. James si muove con baldanza e sicurezza. Sa che basterebbe toccare o troncare il filo sbagliato per saltare in aria. Ma a lui quel lavoro piace e lo fa senza pensarci su due volte, senza mai tirarsi indietro. Tanto che spesso baldanza e sicurezza sembrano arrogante sfida alla morte. Un andarsela a cercare, un rischiare oltre misura e oltre il bisogno per farla finita e dare un taglio a tutto. Con una fine da vero eroe.

La chiusa del film è spiazzante. Dopo averla scampata, al termine di un interminabile anno di servizio, James torna a casa. Dove lo attendono una bella moglie, una meravigliosa figlia e una vita normale. Così normale che il sergente fa dietrofront. Salta su un aereo militare e torna a Baghdad. Le ultime inquadrature lo seguono mentre percorre una strada deserta, protetto dalla sua corazza, andando incontro a una bomba. E al suo destino, qualunque esso sia. Dissolvenza in nero e luci in sala.

Il film è bello. A me è piaciuto molto. In certi passaggi, la Bigelow mi è persino sembrata capace di andare oltre la storia e i personaggi contingenti per afferrare l’essenza di tutto e raccontarci cosa è davvero la guerra. Come sanno fare solo i grandi registi. Come sapeva fare Kubrick: vedi Orizzonti di gloria e Full metal jacket. Tuttavia, ecco la sorpresa. Parte della critica - soprattutto europea - ha condannato la regista, accusando la sua pellicola di cripto fascismo e di incoraggiare gli uomini a combattere e risolvere i loro problemi con la violenza. Fa fede, dicono, quel protagonista che insensatamente rinuncia a una dignitosa vita borghese per tornare ad assaporare il pericolo. Quasi che la guerra fosse una droga, una dolce droga. Insomma, la Bigelow non dà giudizi trancianti, non emette condanne inappellabili, non dice apertamente che la guerra è una merda. Anzi, mantiene una bella dose di ambiguità. E questo a tanti non è piaciuto.

Trovo tale parere irritante. La Bigelow ci dice tutto quello che serve. Che la guerra è malattia, furore, incoscienza, dabbenaggine, stupidità, caso. E non ha bisogno di aggiungere altro per dimostrare che è male. Pretendere da un autore affermazioni più esplicite significa fare dell’ideologia e offendere lo spettatore, giudicato incapace di distinguere da solo, così stupido da doverlo imbottire di verità in pillole. Certo, il protagonista è un guascone indisponente. Ma un guascone disperato, non superomista. E rientra sul campo di battaglia. La guerra l’ha catturato, si è impossessata della sua mente. Ma non vuol dire che la guerra è bella. Forse vuol dire che la vita “normale” è brutta, piatta, monotona, a suo modo più pericolosa per l’animo dell’uomo del teatro dei combattimenti. Questo è il messaggio nascosto della Bigelow. Non è cripto fascismo. È un’amara riflessione sulla nostra incapacità di stare al mondo. E sulla desolazione di questo stesso mondo.

domenica 11 luglio 2010

La vera novità politica

Si va in vacanza, o comunque si pensa, e fa molto caldo: non si ha molta voglia di dedicarsi alle cose serie. Così il mio pensiero all'attuale situazione politica è necessariamente molto breve. Non posso fare a meno di dire che la rabbia di Berlusconi, che in questi giorni se la prende molto con i tanti che non gli permettono di governare, debba farci riflettere. Tutti, di destra, di sinistra o di centro.
E l'argomento della riflessione secondo me è questo: la politica non è solo vincere le elezioni. La politica è anche avere un'idea dei problemi del Paese, poi avere un progetto su come affrontarli.

Ma anche queste cose non bastano. Cosa ci vuole ancora? Bisogna anche... amare la politica, cioè bisogna amare l'antica e difficile arte di cercare di coinvolgere il maggior numero di soggetti che contano nel tuo progetto, tenendo conto degli interessi, dei timori, della mancanza di cultura del cambiamento delle persone che cui ti rivolgi.
Avere la capacità di convincere la gente a votarti è molto utile, anzi: indispensabile. Ma governare è ciò che comincia il giorno dopo che hai vinto le elezioni.

Per governare bisogna volere il bene degli altri: solo questo può darti la forza di dedicarti a un compito in cui a lunghi ed estenuanti sforzi corrispondono spesso piccoli, anche se preziosi risultati. Chi si fa eleggere strombazzando che farà miracoli non vuole bene alla gente. Magari crede di amarla, ma comincia proprio là dove ogni amore si nega: non vuole fare davvero i conti con colui che ama, con i suoi limiti. Il politico vero sa combattere, all'occorrenza, anche grandi battaglie ideali, oppure sa guidare il suo popolo durante una guerra. Ma quando non ci troviamo in situazioni così estreme (e per fortuna, no?) non è il caso di inventarsele: meglio ammettere che ci troviamo nel tempo della mediazione, del dialogo, della ricerca del bene possibile.

La vera novità politica sarebbe uno, o più politici, che mostrino di volere bene alla loro gente e trovino così il modo di parlare la lingua della gente. Per provare a fare il meglio possibile giorno per giorno. Non i miracoli, che poi sono solo annunci assordanti (e una onnipresente campagna elettorale).

venerdì 25 giugno 2010

Un'importante traduzione all'estero


Quella che vedete qua sopra è la copertina di El violinista de Praga, edizione spagnola di Il violinista di Praga, nostro romanzo del 2007. Le questioni di diritti esteri vanno spesso per le lunghe ma alla fine questa traduzione è arrivata. A pubblicare è Grijalbo, importante etichetta del gruppo Random House, e il volume è brossurato e di bel formato: insomma, fa la sua figura. Poiché Grijalbo è molto ben distribuito, dovremmo registrare buone vendite. Sarebbe un ottimo biglietto da visita per il mercato di lingua spagnola, che attraversa l’Atlantico e arriva alla Terra del Fuoco. Certo Mozart non ha mai pensato che un giorno sarebbe stato accusato di diversi ed efferati omicidi. E tanto meno ha immaginato che questo sarebbe accaduto nelle pagine di un romanzo. Il nostro. Praga e il 1787, le ambientazioni del libro, approdano adesso alla Madrid del giorno d’oggi. È un incontro foriero di buone promesse. Anche perché tra due mesi esatti esce il nostro nuovo romanzo. A firma di Luca Castellitto, si intitolerà Io ti aspetto e racconterà la vicenda di una bambina di Chernobyl che dal disastro della centrale nucleare sovietica ha tratto, faticosamente ma con successo, i motivi per ricominciare a sperare. Come si dice, anche dal male viene il bene. Nel caso di Natasha, la nostra protagonista, è stato davvero così. Il libro sarà diffuso in libreria, centri commerciali e Autogrill.

domenica 20 giugno 2010

Auguri agli sposi

Mentre siamo annoiati dalla politica che non c'è e dai soliti scandali, mi è capitato un bel momento: sabato scorso si è sposata una cugina di mia moglie.
Tutto qui? Beh, conviveva da più di dieci anni con un simpatico giovanotto e insieme hanno tre bellissimi bambini, tutti presenti all'altare vicino ai genitori: attenti a scrutare i loro volti e pronti a catturare il senso di ogni parola pronunciata.

I due si sono sposati in chiesa, con un giovane e attento prete ad assisterli, un coro di amiche con tre chitarre e le voci bianche di tutti gli altri bambini della grande famiglia allargata, nonne e zie commosse, candele e qualche fiore.
Si sono sposati, e a vederli erano lo specchio della felicità, o almeno della speranza.

Succede. Succede sempre più spesso. Niente che inverta le statistiche, cioè la quantità dei dilaganti naufragi amorosi, ma solo qualcosa che si segnala per la sua qualità. Se vi capita di sentire di una coppia che si prepara al matrimonio religioso frequentando il corso previsto presso una parrocchia, scoprirete che oggi una buona metà di coloro che chiedono il matrimonio religioso ci arrivano dopo qualche anno di convivenza. E' come se, una volta che questa sia andata abbastanza bene (evidentemente) ci fosse in queste coppie l'idea che senza sposarsi, e "sul serio", in chiesa, appunto, manchi qualcosa.

La questione va approfondita, ne sono convinto. Comunque ai miei simpatici parenti conviventi forse prima mancava qualcosa. Visti sabato sera, che salutavano gli ultimi parenti che se ne andavano dalla festa, sembrava non mancasse più niente.
Ho scritto loro un biglietto: "Grazie per la gioia che vi regalate... e per la fiduciosa speranza in cui volete coinvolgerci".

Auguri a tutti, proprio a tutti gli sposi (che, si sa, ne hanno bisogno). E auguri anche ai conviventi. Ne hanno bisogno anche loro.

sabato 12 giugno 2010

Law & Order UK: un esperimento malriuscito

Come tutti gli appassionati sanno, la Nbc ha cancellato poche settimane fa dai suoi palinsesti Law & Order, giunto alla ventesima stagione e serie più longeva della televisione americana. Ogni nuova puntata del poliziesco raccoglie ancora molti milioni di spettatori, ma gli ascolti non toccano più i vertici degli anni passati e gli introiti pubblicitari non bastano a soddisfare le esigenze dei capi del network.

Curiosamente, proprio mentre la serie madre chiude i battenti, lasciandosi alle spalle diversi spin-off di grande valore, prende vita la sua costola britannica. È infatti partito Law & Order UK, dove “UK” sta per United Kingdom: appunto, il Regno Unito. Viste alcune puntate, promuovo scelta degli attori, recitazione e intreccio. È già tanto, soprattutto se pensiamo agli esiti penosi che danno in questi ambiti le fiction nostrane. Ma devo aggiungere che l’esperimento mi sembra nel complesso malriuscito. Per tre motivi particolari.

- Primo elemento di debolezza: l’ambientazione. Il nostro immaginario, segnato da innumerevoli film e telefilm, è abituato a pensare a New York come alla culla della modernità e dei suoi vizi. New York è il set perfetto del poliziesco, con i grattacieli e gli slums, i finanzieri in doppiopetto e i latinos carichi di droga, gli incroci di razze, culture e destini, i taxi gialli e le auto targate NYPD che mettono la sirena e sfrecciano nel traffico. Londra non ha niente di tutto questo e se ce l’ha non è presente alla nostra fantasia. Forse, se si doveva fare un Law & Order UK, lo si doveva ambientare nella Londra vittoriana. Quella è la Londra con la quale siamo cresciuti e più di tutte elevata nell’opera narrativa a livello di mito. Questa di oggi non ha l’appeal necessario a un’operazione di genere.

- Secondo elemento di debolezza: il già visto. A ricreare Law & Order in salsa locale ci hanno già provato i francesi. Ora arrivano gli inglesi. Ma è davvero necessario tentare? I britannici sostengono che per loro è più semplice: sul Tamigi il sistema giudiziario è fondato sulla common law, esattamente come sull’Hudson, e anche compiti e prerogative di magistratura inquirente e giudicante si somigliano. Ma il punto è proprio questo. A guardare Law & Order UK si ha l’impressione di vedere all’opera i diligenti discepoli di un maestro ineguagliabile. Senza dire della prevedibilità del tutto, a partire dai dettagli di base. La squadra che si muove davanti alla macchina da presa è composta da un poliziotto anziano, cinico ed efficiente, un poliziotto giovane e belloccio, un ispettore donna, un procuratore aggressivo e sicuro di sé, un viceprocuratore di colore e ancora donna. La somiglianza con McCoy e i suoi colleghi non sembra puramente causale…

- Terzo e più importante elemento di debolezza: la mancanza di ritmo. A rendere secondo me la serie poco riuscita è più di ogni altro questo fattore. Le storie hanno begli intrecci, ma nella narrazione è assente la giusta tensione. Troppe pause, troppi accenni da commedia, troppa incertezza nelle svolte. È come se il regista dicesse al pubblico: «Sto girando Law & Order, ma vorrei tanto essere sul set di Poirot. Anzi, ve la svelo tutta. Il mio vero sogno è La signora in giallo. Aiutatemi a cambiare serie!». Naturalmente, con un andazzo di questo tipo, è impossibile per lo spettatore restare attaccato al televisore. Meglio cercare altrove qualcosa di più avvincente.

Morale: a ognuno le sue storie, a ognuno le sue serie televisive.
Meglio fare male qualcosa di originale che fare benino qualcosa di copiato.
E sono sicuro che Dick Wolf la pensa alla stessa maniera.

lunedì 31 maggio 2010

Succede in seconda elementare/2

Dunque, se si chiede ai bambini della seconda elementare di disegnare un quezùl la loro attenzione raggiunge il massimo.
"Cos'é?", domandano interessati.
"Come?" rispondo mostrando sorpresa, "Non lo sapete?".
Silenzio.
"Mai visto un quezùl?".
Scuotono il capo. Ma nessuno protesta. Nessuno dice: "Ma cosa vuoi? Il quezùl non esiste! Non prenderci in giro!".
Cominciano piuttosto i tentativi per capire.

"E' un orso!", dice un bambino.
E io: "Se era un orso avrei detto orso. Invece ho detto: disegnate un quezùl".
"Ma tu l'hai visto?".
Racconto allora un fatto vero. Una notte, in India, me ne stavo appena fuori da una capanna, ai margini della foresta, con un amico che mi ospitava. Prendevamo il fresco dopo una lunga giornata afosa. Improvvisamente, qualcosa si mosse nella boscaglia. "Cosa sarà?", domandai io. E il mio amico: "Mah, tigri, così a nord, è raro...".
E naturalmente ci rifugiammo subito nella capanna, chiudendoci dentro ben bene. Allora sbirciai fuori, attraverso una fessura... e nella semioscurità vidi qualcosa, di grande e lento. Era un quezùl. Non lo vidi bene bene, era buio.

A questo punto, il desiderio dei bambini di "vedere" il quezùl è tale, che esigono di saperne di più. Io prendo gli elefanti che loro hanno disegnato poco prima e dico: "L'elefante conosce il quezùl, facciamoci raccontare da lui com'è".
Sfoglio gli elefanti - ne ho a disposizione almeno venti - e ne trovo sempre (per mia fortuna) almeno due con le orecchie ritte, la proboscide dritta e gli occhi spalancati. Allora mostro ai bambini proprio quegli elefanti e dico: "Il giorno in cui l'elefante ha visto per la prima volta un quezùl ha fatto questa faccia e si è stupito proprio così!".
I bambini entrano subito nella storia. Dallo stupore dell'elefante ricaviamo che il quezùl è un animale "strano", "grande", "impressionante", "diverso"... Perciò ciascuno scrive sul suo foglio bianco questi aggettivi.

Poi pesco un elefante arrabbiato (io stesso ne ho disegnato uno mentre loro disegnavano i loro, ma spesso ne trovo uno arrabbiato anche tra quelli che mi hanno consegnato). Mostro l'elefante o gli elefanti arrabbiati e domando: "Cosa può aver fatto il quezùl per far arrabbiare l'elefante che si è appena alzato e se ne va tranquillo per la foresta?".
Così scopriamo che il quezùl fa gli scherzi, di notte. Per esempio scava delle grandi buche. Oppure abbatte gli alberi. Oppure mangia tutto il cibo, o lo mette tutto nella sua tana. Quindi mangia le stesse cose che mangia l'elefante: foglie, frutta, noccioline...
E scriviamo sul foglio bianco tutte queste cose.

Infine (terzo giorno), pesco qualcuno tra i molti elefanti sorridenti, tranquilli e felici che loro hanno disegnato: elefanti che si spruzzano l'acqua in testa, che mangiano, che riposano beati.
Dico: "Il terzo giorno, anche se c'è ancora il quezùl, l'elefante si sente così".
Ne ricaviamo che il quezùl ha fatto la pace con l'elefante e ora gioca con lui. Perciò, per esempio, gli piace l'acqua, tira i gavettoni, fa i tuffi-bomba e nuota.
E scriviamo sul foglio bianco anche queste ed altre cose.

A questo punto dico: "Bene, con tutte le cose che abbiamo scoperto e scritto, ora potere disegnare un bel quezùl".

Cosa succede?
Almeno metà dei bambini e bambine comincia a disegnare il quezùl e spesso lo fa con grande convinzione.
"E com'é?", direte voi. Non posso descrivervelo: dovete andare alle scuole dove sono stato e farvelo mostrare. Posso solo dirvi che è un animale mutante: ogni bambino che lo disegna disegna il suo quezùl.

E chi non lo disegna? Chi si lamenta e dice: "Come faccio?".
Beh, per questi c'è un aiuto. Spiego loro che è possibile disegnare un quezùl che c'è, ma è anche possibile disegnare un quezùl che c'è ma non si vede. A questo scopo domando loro di farmi il verso del quezùl. Lo fanno in tanti, ovviamente tanti suoni diversi, e io riporto alla lavagna le proposte più interessanti: huoaaaarrrr! Hié-hié-hié! Hiiiiiiiiip! Tiruit! ecc.
"Allora", dico, "si può disegnare una foresta, di notte, e da dietro i cespugli e gli alberi si leva uno di questi versi, o anche tutti. E voi avete disegnato il quezùl che c'è ma non si vede".

Con questo aiuto, anche i meno dotati di fantasia, anche quelli che sono già preda della paura di sbagliare, disegnano il loro quezùl.
Alla fine raccogliamo tutti i quezùl, li uniamo agli elefanti, diamo un titolo alla storia (proposte e poi votazione... la difficile scoperta della democrazia) e con cartoncino, nastro di stoffa e tanta colla rileghiamo un bel libro. Sulla copertina scriviamo: "Classe 2a A - L'ELEFANTE E IL MISTERIOSO QUEZUL - Scuola tal dei tali".

C'è speranza, se questo succede in seconda elementare